Lo Yoga secondo Carrère

“Ma l’esperienza della meditazione, quando va bene, è un modo incondizionato di stare bene. Stai bene perché sei lí. Stai bene perché in nessun altro posto staresti meglio che lí dove sei.” [Yoga, Milano 2021, p.113]

Ho da poco finito di leggere Yoga di Emmanuel Carrère, e mi è piaciuto tanto. Avevo ascoltato la sua intervista a Fahrenheit,1 su Radio 3, più di un anno fa in occasione dell’uscita del libro, e ne fui molto incuriosita, ma per una ragione o per l’altra, non ero ancora riuscita a procurarmelo. È stato il regalo inaspettato di un’amica, per cui è doppiamente prezioso. Mi incuriosí perché parla principalmente di meditazione – capirai, chissà che novità! È da un po’ che va di moda parlare di meditazione, di mindfulness, di autoconsapevolezza; esistono centri, seminari, corsi intensivi, ritiri spirituali in luoghi isolati e, spesso difficili da raggiungere. Ma Carrère non parla di una forma di meditazione qualsiasi. No. Carrère pratica la meditazione Vipassana, quella trasmessa secondo gli insegnamenti del Maestro S. N. Goenka Ji. La stessa che pratico anche io, ormai da quasi dieci anni!

Il centro di Meditazione Vipassana Dhamma Mahi (Le Bois Planté, 89350 Louesme) in Francia dove Carrère ha svolto il suo stage.

“Poiché devo pur cominciare da qualche parte il racconto dei quattro anni durante i quali ho cercato di scrivere un libretto arguto e accattivante sullo yoga […], scelgo quella mattina di gennaio del 2015 in cui, chiudendo il borsone da viaggio, mi sono chiesto se fosse meglio portarmi dietro il telefono, di cui avrei dovuto disfarmi nel posto in cui stavo andando, o lasciarlo a casa. Ho optato per la scelta più radicale e […] ho trovato eccitante essere fuori dalla portata dei radar”. [ p. 17]

Inizia cosí Yoga, l’ultima fatica editoriale di Emmanuel Carrère: una narrazione lunga 312 pagine dove l’ autore-meditatore-yogi si mette letteralmente a nudo, raccontando in modo limpido e mai banale, quanto accadutogli nell’arco di quattro anni. La descrizione del suo soggiorno presso il centro Vipassana, dove si accinge a trascorrere dieci giorni osservando il Nobile Silenzio, è fedelissima: tutte le tappe, dall’accoglienza al questionario alla sistemazione ai discorsi di S. N. Goenka alla pratica vera e propria, la “frequentazione delle proprie narici”, come la definisce Carrère, sono esattamente fedeli a ciò che avviene nei centri vipassana di tutto il mondo. Ma Yoga non parla “solo”di yoga, meditazione, tai chi chuan – discipline che Carrère frequenta da una trentina d’anni, ossessionato dalla “costruzione paziente, che dura tutta la vita, di uno stato di meraviglia e serenità”, ma che difficilmente riesce a raggiungere, C’è la vita dentro. La sua. Ed egli ci racconta tutto, ma prorpio tutto quello che gli è accaduto, con la naturalezza di un bambino che racconta una marachella, sapendo che la farà franca; riportando fedelmente, la cronaca dei quattro anni intercorsi dall’iniziale idea di scrivere un “libretto arguto e accattivante” sullo yoga fino alla sua pubblicazione. Il libro è uscito ormai da più di un anno e si è venduto bene, sia in Italia che in Francia, che un po’ ovunque: è stato letto da tanta gente e se n’è scritto parecchio. Non è per farne l’ennesima recensione che ne scrivo. No. Leggerlo mi ha affascinato talmente tanto, che non posso non farlo. Puro e semplice.

“Show, don’t tell”

Emmanuel Carrère [foto: Francesco Gattoni]

“Non voglio dimostrare niente, voglio mostrare”[Federico Fellini]

Ecco, leggendo Yoga ho avuto la netta sensazione che Carrère non volesse “dimostrare”niente, ma solo “mostrare”uno spaccato della sua vita cosí come la vive lui. È come lo sguardo “in soggettiva” del regista: questo è il mondo che vedo e te lo faccio vedere. Non mi interessa se quello che mi racconta è la pura verità o una finzione: è l’ “effetto di autenticità” che produce leggendolo, che mi piace e mi fa venir voglia di leggere altro di suo. Mi piace la struttura del libro, l’impalcatura su cui edifica la cronaca di questi quattro anni: la ripartizione in cinque sezioni [5 = numerologicamente legato al viaggio, alla libertà, ai cambiamenti, al piacere; 5 = i precetti della Vipassana] – grandi teche che custodiscono le tessere del suo puzzle narrativo. Sostiene di non essere buddhista, ma il suo punto di vista è un eterno presente: anche se racconta retrospettivamente, è sempre “qui e ora”, come insegna la Vipassana, che in lingua pali3 vuol dire “osservare la realtà per come è”, “vedere chiaramente e profondamente”. La sua prosa è asciutta, priva si sbavature, elegante, a suo modo. Chiama le cose col loro nome, non improvvisa mai, non si perde in elucubrazioni arzigogolate; anche quando va a fondo e apre serie di porte per arrivare al cuore di un concetto, ritorna sempre al punto di partenza, in modo naturale, diretto senza darti l’impressione che, anche solo per un attimo, abbia perso il filo del discorso. In realtà, sa sempre dov’è. Questo modo di scrivere esatto-preciso-nitido è quello che mi piace dell’ “essere” scrittura. E lo stile di Carrère, che non conoscevo e sono contenta di aver scoperto con questo libro, è sciolto ma non sfacciato, parla in modo esplicito ma mai volgare: anche quando si sofferma, dettagliandolo, sull’amore yogico con la donna della statuetta dei gemelli [Vritti, pp. 72-84], è linguisticamente igienico; non urla la sua sofferenza [“Storia della mia pazzia”], la attraversa con rispetto e compassione. Una prosa “esatta”, la sua, nell’accezione calviniana di Esattezza. Per lo scrittore italiano, esattezza vuol dire soprattutto tre cose: “1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili […]; 3) un linguaggio il più preciso possibile, come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”.2 Esattamente in questo senso.

“I momenti di tranquillità […] non riesco mai a viverli veramente nel presente, a viverli e basta, perché subito si manifesta il bisogno di trasformarli in parole. Non ho accesso diretto all’esperienza, devo sempre rivestirla di parole. […] che immenso progresso sarebbe comporre meno frasi e vedere di più” [Words, words, words…, pp. 118-9]
La quiete consapevole, intenzionale, è nobile silenzio [Thich Nath Hanh]

Sorvolo su “Storia della mia pazzia” [III sezione, p.149], la narrazione del suo ricovero psichiatrico al Sainte Anne [ospedale psichiatrico di Parigi], e atterro direttamente a Leros, su “I ragazzi” [IV sezione, p.200], Non perché la terza sezione sia narrativamente poco attraente, ma perché nella quarta c’è “Martha”. [p. 268]. Emmanuel Carrère, oltre che scrittore, è anche giornalista di reportage (scrive per Le Monde), sceneggiatore e regista, e la sua scrittura risente positivamente di questa commistione di linguaggi, tra cui si muove con agio e una certa padronanza. Il paragrafo descrive nel dettaglio, un’esecuzione per piano di una nota concertista del passato. Lo scrittore racconta la registrazione del concerto che sta guardando, e la sua descrizione è talmente puntuale e vivida (una shooting list), che hai voglia di andarlo a cercare su YouTube per vedere quello che ha visto lui, per riuscire a cogliere quel dettaglio su cui ha riversato tante parole. L’ho fatto dopo averlo letto. Sono rimasta sorpresa. Cosí come non mi aspettavo di leggere tout à coup che la Scuola Holden di Alessandro Baricco “è quanto c’è di meglio al mondo in materia di creative writing“‘ [p. 273]. Però!

Scorrendo le pagine del libro, hai la sensazione di chiacchierarci con Carrère: non sembra che stai leggendo una storia, no. La sensazione è proprio quella di starci a chiacchierare, una bella chiacchierata, lunga 312 pagine, che non ti annoia, anche se è lui che guida la conversazione. E “ascoltandolo” ho scoperto da dove deriva l’espressione “avere poco sale in zucca” [p. 303]. Sai di trovarti davanti una persona intellettualmente onesta, che si racconta senza veli, non mente [“in letteratura non si mente” (?): non sai se è cosí ma accetti di crederci], che passa da un argomento all’altro con estrema scioltezza, in una narrazione fluida e scorrevole, come il fluire del respiro dentro e fuori dalle narici. È un respiro che dura per tutto il libro; un “espiro”, un buttar fuori e liberarsi dell’aria respirata: originariamente avrebbe dovuto intitolarsi Espirazione. E tuttavia gli argomenti non sono scollegati, c’è un filo conduttore, un fil rouge che lega tutto il discorso, che è la meditazione e lo yoga. E il trasporto che ha per queste discipline, quanto gli sono utili, gli insegnano ad essere una persona migliore, quello che desidera e ciò a cui anela. Staccarsene è difficile: è come quando sei in buona compagnia, il tempo passa e non pensi ad andartene. Il momento in cui devi farlo quasi ti dispiace e non vedi l’ora di rincontrarlo e riprendere da dove hai lasciato. Ecco, è un po’ questo leggere Yoga, leggere Emmanuel Carrère: una bella scoperta – “As if you pour honey inside of your leg…”. Aniçça, aniçça, aniçça!

Emmanuel Carrère, Yoga, Milano 2021, p. 312, 19€

Postilla: a p. 222 si legge, “quello che si sviluppa nel tempo è yin, quello che si sviluppa nello spazio è yang“. Siccome condivido con Carrère la passione per il Taoismo e per l’antico Libro dei Mutamenti (I Ching), non ho potuto non notare questa confusione lessicale: è yang il Tempo, è yin lo Spazio. Nessuna macchia, sublime salute.

❊ Per chi fosse interessato, in Italia, il Centro di Meditazione Vipassana Dhamma Atala si trova a Lutirano di Marradi, provincia di Firenze.

Note:

1 Il podcast su raiplaysound ora purtroppo non è più disponibile.

2. Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano 1988, p. 57

3. Lingua indiana, appartenente alla famiglia indoeuropea, ancora oggi è usata come lingua liturgica del buddhismo theravāda.

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